Sipario aperto sull'ultima serata della Corte della Formica, che vede sul palcoscenico Titti Nuzzolese cimentarsi, assieme a Massimo Pagano, con Parole troppo lunghe di Mirko Di Martino: scenografia essenziale, due sedie ed un tavolino, per lasciare spazio all'ambiente mentale, su cui si gioca tutto il lavoro.
Lei è logorroica, parla inducendo a pensare ad una mancanza di presenza a sé stessa, ed infatti sta parlando al suo psicanalista, che tuttavia si dimostra presto talmente infastidito e stanco, dal linguaggio assai improbabile e perfino dall'atteggiamento provocatorio e dai modi aggressivi, da far pensare immediatamente che sia assolutamente impossibile, che sia davvero un analista. Ed infatti, non lo è.
Al contrario di quanto faccia credere il suo discorso, infatti, di moglie devota alla memoria di un marito morto in un incidente due anni prima (“Voglio essere una brava moglie anche se lui non c'è più...”) che sta in analisi nello studio del suo medico, la realtà è che invece si trova a casa sua, ed il marito è proprio lui (un pathos poco sfruttato, all'atto della rivelazione), ben vivo, che da due anni rivive ogni giorno l'esperienza di vederla vivere in un mondo tutto suo, senza riconoscerlo mai, poiché sin dal giorno della fatidica scoperta, soffre di prosopagnosia. Una vita dedicata a lui, ed in un attimo la visione impossibile e traumatica ed un incidente dove lui muore: questi sono i suoi ricordi.
Oppure no.
Ecco il punto di snodo dell'intera storia, e tutta la sua forza: il marito non crede alla malattia, e ritiene che stia inventando ogni cosa, semplicemente per punirlo, per scolpire nella pietra e fargli scontare per sempre il suo “errore”. La parte migliore della storia, è che non ci sia un finale: potrebbe essere vera o falsa, la malattia, non ha alcuna importanza, mentre rilevante è la trattazione del disagio e della memoria come funzione, come costruzione di identità, soprattutto se legata a personaggi femminili in cui immettere caratteristiche di costrizione quotidiane assai più pesanti.
Tre personaggi incorniciati appaiono nella penombra, ed un altro che fa il suo ingresso, spaesata, fra di loro: si apre il sipario su Epoché di Giovanna Pignieri, messo in scena da Raffaella Lepre che ne è anche interprete insieme con Paola Bocchetti, Ivana D'Alisa e Daniela Ioia. Citiamo subito i nome delle 4 protagoniste, perché formano un quadro d'insieme particolarmente vivo, espressivo e riuscito, dando spesso alla scena, con le maschere dei loro volti, qualcosa in più che risalta anche oltre la stessa storia narrata.
Il personaggio entrante è l'assessore alle Pari Opportunità del Comune di Napoli, mentre le tre astanti, a pieno agio in quello che si rivela essere un sogno sognato da una giovane napoletana che emigra per lavoro a Milano, sono Giovanna II d'Angiò-Durazzo, Maria Carolina d'Austria e Matilde Serao; il sogno in cui si trovano e quello che sta facendo dunque la giovane (evidentemente studiosa di meridionalismo, data la presenza onirica anche di Cavour con la faccia nella polenta...) per capire cosa sia andato storto nella storia, ed uno dei pregi maggiori dello spettacolo è senza dubbio la capacità, attraverso il loro discettarne come a corte, elegantemente ed ironicamente, di ridurre ogni evento, sia esso di dimensioni politicamente ampie sia di carattere personale ovvero leggendario ed intimo, ad una conversazione apparentemente futile, degna appunto di una corte europea del settecento: in tale stile, la storia di Napoli poteva facilmente decadere a macchietta, mentre con questa leggerezza rimane sempre piacevolmente sospesa su una tazza da thè.
Del resto Epoké è la sospensione del giudizio, quel processo cognitivo dei Greci che prevedeva di astenersi da una valutazione, nel caso in cui non si avessero a disposizione sufficienti elementi per formulare il giudizio (un principio che oggi varrebbe in una quantità industriale di casi), e questo modo di affrontare il rapido excursus storico delle quattro, con ritmo ed ironia assai piacevoli, è un bel tocco di leggerezza su un lavoro che ha nel finale una parte che tende al pessimismo del ripetersi degli errori della storia delle dominazioni, del meridionalismo antico e della politica contemporanea, tanto che quel treno che nel 1870 fece il suo primo tragitto da Napoli a Milano, assurge a simbolo dell'inanità del progresso, se sembra ancora oggi lo stesso treno che la studentessa è costretta a prendere, per emigrare.
“Il teatro è morto, ed anche io non mi sento molto bene”: per racchiudere la storia del teatro in 15 minuti, Caroline Pagani ricorre (anche) a Woody Allen, in una rivisitazione della sua celeberrima citazione su Dio e Marx; e come un Dio pagano è visto anche il suo excursus sul teatro di cui firma anche la regia con Alessandro Pazzi: Teatreide.
Dopo aver preso un “teatrix” ed essersi ripresa, dunque, il discorso non può che partire dallo stato dell'arte più generale della cultura, in epoca di tagli dissennati ai fondi, ma lamentando anche, d'altro canto, l'assenza dei grandi artigiani che hanno riempito di storie ed interpretazioni il teatro nei secoli. L'impresa tentata in un tempo così breve deve ovviamente scartare folle di possibili ed eccellenti protagonisti, e così la scelta per il percorso da seguire cade essenzialmente su Aristofane, Shakespeare, Molière ed Oscar Wilde.
Del primo ricorda la geniale Lisistrata, il personaggio femminile ateniese che inventò il primo sciopero del sesso per porre fine alla guerra del Peloponneso, e gli accenti, oltre che “sorvolatori” come necessita, sono a volte di incerto e sbrigativo gusto rozzo-modernista, mentre del teatro elisabettiano e della questione shakespeariana si trae un'immagine poetica ed idealista, per la Comédie-Française traspare un profondo rispetto, e di Wilde arriva la grandezza dell'artista, dell'uomo e di alcune vette ideali come la l'essenza del desiderio (Salomè).
Caroline Pagani passa dallo stato di maestrina a quello di ribelle, dall'interpretare al distruggere, dall'evocare all'accusare, e la parte finale infatti è tutto un j'accuse lanciato contro la considerazione attuale di una pièce teatrale, chiudendo il cerchio aperto all'inizio, fra precariato e disoccupazione, storture ed ironie che non vengono risparmiate a nessun singolo elemento della costruzione di una rappresentazione teatrale moderna: una incessante ed energica pars destruens che colpisce scrittura, tecnica, spettatori, critica e quant'altro (con l'effetto magari di sparare un po' troppo nel mucchio), e che attraverso il discorso sulla trasmutazione e su ciò verso cui si sta avviando a diventare il teatro (un futuro asettico? Una visione da internet+divano?) fa crescere un climax che anche fisicamente, esponendo il proprio corpo come strumento, diventa finto-transessuale, poi nudo, poi urlante ed imbrattato di sangue, come per espiare la sovrabbondanza di effetti speciali che oggi soppiantano le idee, nascondendone l'assenza.